Film
Regia: Ermanno Olmi (Italia 2011)
Tutta l’umanità in una chiesa
Il villaggio di cartone di Olmi gli immigrati ridanno a un vecchio prete il senso della sua missione
Tutta l’umanità in una chiesa
Il villaggio di cartone di Olmi gli immigrati ridanno a un vecchio prete il senso della sua missione
Di Mauro Turrioni
La navata viene piano piano spogliata dei parametri sacri, dei dipinti, delle statue dei santi, dei candelabri. Poi il lungo braccio meccanico si arrampica fino alla cuspide sopra l’altare e cala a terra il grande crocifisso. A terra come uno sconfitto. Così si sente il vecchio parroco, prete in disarmo per mancanza di fedeli al pari della sua chiesa. L’incipit, suggestivo, de il villaggio di cartone catapulta lo spettatore in un luogo sospeso nel tempo e nell’anima in cui ciò che accadrà è fiaba, sogno forse. O magari verità più vera. Perché dopo il “saccheggio”, di fronte all’altare spoglio come il sepolcro, in mezzo ai muri finalmente messi a nudo, l’anziano sacerdote avvertirà una sacralità che prima non gli appariva. A fargliela cogliere sarà un gruppo male amalgamato di immigrati clandestini. Mentre c’è chi li bracca, lì il prete e il maturo sacrestano offrono rifugio.
Dopo i primi momenti di smarrimento, ecco affacciarsi tensioni, sentimenti contrapposti. Non tutti la pensano alla stessa maniera. Ci sono il ragazzo speranzoso, la mamma col bimbo in grembo che pare una Madonna, la donna fiera che nasconde la lama per difendersi. C’è pure un giovane dal volto incappucciato, che minaccia di farsi saltare in aria per fargliela pagare a “quelli”. A ciascuno il vecchio prete offre una parola, la voglia di ascoltare. Perfino l’aspirante kamikaze. E saranno quei poveri cristi in carne e ossa a restituirgli il senso profondo della missione cristiana. In una chiesa senza più orpelli, vera Casa di Dio. A 80 anni, Olmi aveva detto basta coi film. Di fronte al dramma dell’immigrazione, ha vinto però l’urgenza di raccontare: “L’accoglienza è il vero simbolo”, dice, “senza di essa la croce non basta”. Splendido questo suo apologo dal sapore teatrale.
La navata viene piano piano spogliata dei parametri sacri, dei dipinti, delle statue dei santi, dei candelabri. Poi il lungo braccio meccanico si arrampica fino alla cuspide sopra l’altare e cala a terra il grande crocifisso. A terra come uno sconfitto. Così si sente il vecchio parroco, prete in disarmo per mancanza di fedeli al pari della sua chiesa. L’incipit, suggestivo, de il villaggio di cartone catapulta lo spettatore in un luogo sospeso nel tempo e nell’anima in cui ciò che accadrà è fiaba, sogno forse. O magari verità più vera. Perché dopo il “saccheggio”, di fronte all’altare spoglio come il sepolcro, in mezzo ai muri finalmente messi a nudo, l’anziano sacerdote avvertirà una sacralità che prima non gli appariva. A fargliela cogliere sarà un gruppo male amalgamato di immigrati clandestini. Mentre c’è chi li bracca, lì il prete e il maturo sacrestano offrono rifugio.
Dopo i primi momenti di smarrimento, ecco affacciarsi tensioni, sentimenti contrapposti. Non tutti la pensano alla stessa maniera. Ci sono il ragazzo speranzoso, la mamma col bimbo in grembo che pare una Madonna, la donna fiera che nasconde la lama per difendersi. C’è pure un giovane dal volto incappucciato, che minaccia di farsi saltare in aria per fargliela pagare a “quelli”. A ciascuno il vecchio prete offre una parola, la voglia di ascoltare. Perfino l’aspirante kamikaze. E saranno quei poveri cristi in carne e ossa a restituirgli il senso profondo della missione cristiana. In una chiesa senza più orpelli, vera Casa di Dio. A 80 anni, Olmi aveva detto basta coi film. Di fronte al dramma dell’immigrazione, ha vinto però l’urgenza di raccontare: “L’accoglienza è il vero simbolo”, dice, “senza di essa la croce non basta”. Splendido questo suo apologo dal sapore teatrale.
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